L’epitaffio in latino dedicatogli dal cardinale Pietro Bembo, amico e illustre intellettuale, sulla tomba al Pantheon, dove è sepolto insieme ai re d’Italia, recita:
Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori.
(Qui giace Raffaello, Madre Natura temette, finché egli visse, di essere da lui vinta e, quando si spense, di morire con lui).
Il 6 aprile del 1520, si spegne a Roma, nel giorno in cui avrebbe compiuto trentasette anni, una delle stelle più luminose dell’arte rinascimentale: Raffello Sanzio.
La gioventù.
Nato a Urbino, dopo una prima formazione nella bottega del padre – il pittore e scrittore Giovanni di Sante di Pietro – Raffaello approda in Umbria per entrare nella bottega di Pietro Vannucci, detto il Perugino, principale maestro della scuola umbra.
Con lo Sposalizio della Vergine, dipinto datato 1504 e ispirato a un’analoga tavola che proprio in quegli anni il Perugino sta dipingendo per il Duomo di Perugia, il poco più che ventenne Raffaello dimostra di aver superato il maestro e di essere ormai pronto a brillare di luce propria. In quello stesso anno, infatti, il 1504, Raffaello fa il suo ingresso a Firenze, raccomandato al gonfaloniere Pier Soderini dalla corte di Urbino.
Il periodo fiorentino.
Nello stimolante ambiente fiorentino, Raffaello ha modo di osservare Leonardo e Michelangelo lavorare insieme ed emularsi l’un l’altro. Il giovane pittore urbinate non si lascia scoraggiare dalla grandezza e dalla fama di questi due giganti, entrambi più anziani di lui. Al contrario, è determinato a imparare da loro, studiandone attentamente le opere, e a eguagliarli. Inoltre, a differenza dei due maestri, con i quali è difficile trattare essendo imprevedibili e inafferrabili, Raffaello vanta un’indole dolce tale da permettergli di raccomandarsi ai mecenati più influenti. Giorgio Vasari ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti lo descrive così:
Di natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in coloro che più degli altri hanno certa umanità. Di natura gentile, aggiunta a un ornamento bellissimo d’una graziata affidabilità.
Con Michelangelo il confronto diretto è rimandato a più tardi, a Roma. Ora, a Firenze, è Leonardo a influenzare maggiormente Raffaello. Semplificando gli schemi piramidali e bandendo ogni effetto di mistero cari al genio vinciano, Raffaello rielabora in numerose varianti il tema della Madonna col Bambino: le sue figurazioni sono serene, equilibrate, i personaggi si rapportano attraverso gesti semplici e affettuosi, le scene sono caratterizzate da garbati toni familiari.
L’influenza esercitata da Leonardo su Raffaello si può notare anche confrontando due ritratti: la Gioconda e la Maddalena Strozzi. Il ritratto di Maddalena Strozzi (eseguito da Raffaello nel 1506 in coppia con quello del marito, Angelo Doni, e oggi conservato agli Uffizi) è palesemente ispirato alla Gioconda di Leonardo nella posa, ma è privo di qualsiasi suggestiva qualità evocativa: la figura della nobildonna fiorentina si impone come presenza “fisica” con il vestito suntuoso, i gioielli preziosi, il viso pieno e l’espressione consapevole del proprio ruolo sociale. Con questa interpretazione Raffaello crea il modello indiscusso per la ritrattistica del Cinquecento.
Il periodo romano.
La svolta nella carriera dell’urbinate avviene verso la fine del 1508 quando si trasferisce a Roma, dove papa Giulio II ha messo in atto una straordinaria opera di rinnovo urbanistico e artistico della città e del Vaticano, chiamando a sé i migliori artisti sulla piazza.
Contemporaneamente alla volta della Sistina, il papa ha avviato un altro ciclo pittorico per il nuovo appartamento che si è fatto costruire nei Palazzi Vaticani. Giulio II, in un primo momento, affida la decorazione a un gruppo di artisti tra i quali spiccano Baldassarre Peruzzi, Lorenzo Lotto, il Bramantino, Sodoma. In seguito, su suggerimento di Bramante, licenzia questo gruppo di pittori per affidare l’intero lavoro al nuovo arrivato: Raffaello. Il giovane artista, pur avendo fornito prove del suo talento, non ha ancora intrapreso nulla di tanto monumentale. Quella del papa, dunque, è una scelta azzardata, ma che si rivelerà vincente.
Gli affreschi per le Stanze restano, infatti, un caposaldo dell’arte del primo Cinquecento: la qualità straordinaria dell’opera di Raffaello sta nella varietà e nella ricchezza delle soluzioni formali, nell’apparente facilità con cui supera i problemi di composizione imposti dalla quantità di figure e di atteggiamenti, dalla irregolarità delle pareti interrotte da porte e finestre. Ma, soprattutto, sta nella capacità di sintetizzare e tradurre in immagini gli ideali del Rinascimento che in quegli anni la Chiesa di Roma fa propri, nutrendo di essi le sue aspirazioni al ruolo di guida di un mondo che si rinnovi sotto il segno della Chiesa e che trovi il suo punto di riferimento in Roma, caput mundi spirituale e culturale.
Da questo momento la pittura di Raffaello suscita entusiasmo presso i dotti e i potenti della corte papale che per primi esaltano il valore della sua opera. Le commissioni crescono a dismisura al punto che l’artista deve servirsi di una vasta schiera di aiutanti, così da potersi dedicare anche ai suoi molteplici interessi che spaziano dall’arte antica a quella contemporanea, dall’architettura alla scultura, dalla letteratura alla storia.
A Roma Raffaello continua la sua ricerca sul tema della pala d’altare con opere come la Madonna di Foligno, la Madonna Sistina (ai cui piedi fanno capolino i due deliziosi angioletti pensosi, tra le realizzazioni più popolari del Sanzio e della cultura figurativa del Rinascimento, spesso riprodotti come soggetto indipendente), la Santa Cecilia, la Trasfigurazione con cui si accentuano progressivamente gli effetti teatrali e si intensifica la riflessione sul rapporto fedeli-santi-Dio.
Negli stessi anni in cui è impegnato in Vaticano a decorare le Stanze per Giulio II, Raffaello dipinge un affresco nella villa del ricco banchiere senese Agostino Chigi (oggi chiamata Villa Farnesina). Il tema è tratto dalla strofa di un poemetto di Agnolo Poliziano (lo stesso che aveva ispirato la Nascita di Venere di Botticelli): il goffo gigante Polifemo canta una canzone d’amore alla ninfa Galatea che, sorvolando le onde del mare su un cocchio trascinato da due delfini, ride di lui, circondata da un gruppo di ninfe e divinità marine. La composizione è misurata, il controbilanciarsi dei movimenti crea un festoso roteare intorno alla figura di Galatea, avvitata su se stessa, con lo sguardo sorridente rivolto al canto d’amore che Polifemo le dedica fuori campo. I corpi possenti delle figure testimoniano l’influenza di Michelangelo, sebbene siano addolciti dal Sanzio che qui ricrea una classicità mitica attraverso i toni cristallini: sul verde marmoreo della superficie del mare spicca il rosso pompeiano della veste di Galatea, a riprova di una conoscenza già approfondita della pittura romana antica.
Dopo la morte di Bramante nel 1514 e il ritorno di Michelangelo a Firenze nel 1515, Raffaello si ritrova a ricoprire un ruolo centrale nei programmi del nuovo papa Leone X (secondogenito di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini) e a essere il più sensibile interprete del colto ambiente pontificio.
Il Ritratto di Baldassarre Castiglione testimonia il legame del pittore con l’ambiente culturale romano oltre che con Castiglione stesso, autore de Il libro del Cortegiano, in cui è delineato l’ideale ritratto del perfetto gentiluomo di corte. Ideale che lo stesso Castiglione impersona nella naturalezza dell’atteggiamento, nobile ma senza ostentazione, e nell’espressione attenta e serena; i tratti fisici e morali sono resi attraverso l’equilibrio della composizione e gli accordi dei toni bruni e grigi.
A questo stesso periodo risalgono anche due dei più celebri ritratti femminili realizzati da Raffaello: La Velata e La Fornarina. A differenza del primo, in cui oltre al velo sul capo indossa un elegante abito bianco e oro dalle maniche ingombranti, nel secondo la donna è ritratta a seno scoperto. Sul bracciale che porta all’avanbraccio sinistro è incisa la firma del pittore “Raphael Urbinas”. Il capo è cinto da un prezioso turbante su cui spicca una spilla composta di due pietre incastonate con perla pendente (particolare ripreso nel 1814 da Jean-Auguste-Dominique Ingres ne La grande odalisca). Lo sfondo arboreo è un riferimento a Leonardo. A lungo si è dibattuto sull’identità della modella, che resta tuttora controversa. Prevale l’identificazione con Margherita Luti, amante di Raffaello, figlia di un fornaio di origini senesi che aveva il forno in contrada Santa Dorotea a Trastevere (da qui il soprannome “Fornarina”). Tesi avallata anche dal Vasari che ne Le vite scrive: «una sua donna, la quale Raffaello amò sino alla morte.»
L’interesse di Raffaello per l’antichità è stimolato dalle scoperte archeologiche che in quegli anni appassionano tutta Roma. Non solo egli rielabora dalle decorazioni parietali degli antichi edifici il tipo di decorazione detto “a grottesche” che avrà grande fortuna, ma diviene una vera autorità in campo archeologico, al punto che Leone X gli affida nel 1515 l’incarico di sovrintendente ai marmi e alle iscrizioni latine, con lo scopo di preservare dalla distruzione gli esemplari più interessanti dal punto di vista estetico e documentario. Parallelamente si occupa anche di architettura dando avvio a una svolta i cui esiti si manifesteranno lungo il corso del secolo in Italia e fuori dall’Italia. Le sue soluzioni innovatrici, infatti, saranno esportate e diffuse ovunque dopo la sua morte dai suoi allievi e da quegli artisti come Peruzzi, Sansovino, i Sangallo, che avevano avuto contatti con lui. In architettura la strada di Raffaello parte da Bramante e dalla tradizione toscana del Quattrocento – Bramante stesso riconobbe in lui il suo erede quando lo designò a succedergli nella direzione della fabbrica di San Pietro – ma ben presto arriva a proporre soluzioni innovatrici e geniali. Dalla cappella Chigi a villa Madama, dalle Logge Vaticane al tema del palazzo urbano, l’architettura di Raffaello parla un linguaggio sempre più monumentale e magniloquente, in accordo con quanto avviene contemporaneamente nella sua pittura.
La morte.
Raffaello sta lavorando alla Trasfigurazione, un dipinto a tempera grassa su tavola, quando una febbre improvvisa lo costringe a letto per quindici giorni. Inutili si rivelano i tentativi di salvarlo attraverso ripetuti salassi. La morte raggiunge il suo capezzale il 6 aprile del 1520, un Venerdì santo, tra lo sconcerto e la commozione di tutti.
Resta tutt’ora avvolta nel mistero la causa della febbre acuta che lo ha portato al decesso. Sifilide, malaria, polmonite sono le ipotesi più accreditate. Non mancano i sospetti di avvelenamento il cui movente sarebbe da ricercare nelle gelosie e nei rancori suscitati dalla fama e dal potere raggiunti dal pittore che, grazie al suo genio e al suo carattere socievole, si è guadagnato la stima e l’amicizia dei dotti e dei dignitari della corte papale. Vasari, invece, ne Le vite scrive che Raffaello era «persona molto amorosa affezionata alle donne e ai diletti carnali» e aggiunge che «faceva una vita sessuale molto disordinata e fuori modo», specificando che «dopo aver disordinato più del solito tornò a casa con la febbre»: la morte, dunque, sarebbe stata la conseguenza di una malattia trasmessa sessualmente (sifilide, con ogni probabilità).
A soli trentasette anni, dopo aver creato una varietà incredibile di capolavori, Raffaello si addormenta per sempre in grembo a quella Roma dei papi che entusiasta lo ha accolto quando era ancora un giovane pittore promettente, elevandolo nell’Olimpo degli artisti e consegnandolo alla gloria eterna.