I diari di Sylvia Plath

«Quello che mi spaventa di più, credo, è la morte dell’immaginazione. Quando il cielo lassù è solo rosa e i tetti sono solo neri: quella mente fotografica che paradossalmente dice la verità, ma una verità senza valore, sul mondo. Io desidero quello spirito di sintesi, quella forza “plasmante” che germoglia, prolifica e crea mondi suoi con più inventiva di Dio. Se sto seduta ferma e non faccio niente, il mondo continua a battere come un tamburo lento, senza senso. Dobbiamo muoverci, lavorare, fare sogni da realizzare; la povertà della vita senza sogni è troppo orribile da immaginare: è il peggior tipo di pazzia.»

Sylvia Plath
Diari
Adelphi, 2004
Traduzione di Simona Fefè

Il diario è forse l’unico strumento in grado di consegnarci il ritratto più autentico, intimo, di una persona. Perché il diario è una valvola di sfogo, un ricettacolo di frammenti vitali, di pensieri inconfessati, di desideri nascosti.

Credo che per conoscere e per capire Sylvia Plath – poetessa e scrittrice statunitense tra le più iconiche del Novecento, morta suicida a soli trent’anni – la lettura dei suoi diari sia una tappa imprescindibile. In essi è racchiusa l’essenza stessa di Sylvia Plath e tutto il suo complesso mondo (che si riflette nelle sue opere).

Suddivisi in tre parti, i Diari iniziano nel 1950 quando Sylvia, diciottenne, si è appena immatricolata allo Smith College. Tra queste pagine la Plath annota profonde riflessioni, riporta stralci di quotidianità e appunta i tumulti dell’anima. Gli studi, il lavoro, la scrittura (sua croce e delizia). Gli amori, il rapporto con la madre, la mancanza del padre morto quando era bambina. Il complesso matrimonio con il poeta Tom Hughes, le gravidanze, il trasferimento in Europa. I tentativi di suicidio, il ricovero in psichiatria, la terapia. Severa nel giudicare se stessa, tagliente nel criticare gli altri, la Plath è perfettamente consapevole della depressione che la rende preda di una perenne insoddisfazione e di repentini sbalzi d’umore. Un male di vivere che non l’abbandonerà mai e la trascinerà nella tomba.

Il testo s’interrompe nel 1962, anno che segna la nascita del suo secondo figlio, il fallimento del suo matrimonio e la realizzazione di quella che è la sua opera più importante: la raccolta di poesie Ariel. L’11 febbraio del 1963, un mese dopo la pubblicazione del suo romanzo (fortemente autobiografico) La campana di vetro, Sylvia si uccide nella sua abitazione a Londra, infilando la testa nel forno a gas, non prima di aver preparato la colazione e aver isolato la camera dei figli.

Giornale di bordo un’esistenza vissuta tra precipitose cadute e vertiginose risalite, racconto di un’anima lacerata e drammatica, i Diari di Sylvia Plath rappresentano una lettura intensissima e a tratti dolorosa, ma estremamente emozionante. Di quelle che restano impresse per sempre nella memoria del cuore.

Valeria Auricchio

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