La cosiddetta Villa dei Misteri è una villa suburbana di epoca romana ubicata a poche centinaia di metri fuori dalle mura dell’antica città di Pompei, sepolta durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. La villa (inizialmente chiamata villa Item), fu riportata alla luce tra il 1909 e il 1910, durante uno scavo condotto dal proprietario del terreno sotto cui era sepolto l’edificio. Dopo l’esproprio dell’area da parte dello Stato Italiano, lo scavo fu ripreso in modo scientifico negli anni 1929-1930, sotto la guida dell’archeologo Amedeo Maiuri. Appartenuta forse agli Istacidii, nota famiglia della Pompei di età augustea, la Villa dei Misteri è il tipico esempio di residenza di lusso sviluppatosi a partire dal tardo II secolo a.C. come rifugio dal caos urbano. L’edificio, a pianta quadrata, fu costruito su un pendio affacciato verso la marina, lungo la strada che da Pompei si dirigeva a Ercolano. Intorno al 60 a.C. la villa fu rinnovata con una ricchissima decorazione parietale e pavimentale, mentre assunse l’aspetto odierno durante gli interventi seguiti al terremoto del 62 d.C., periodo in cui avvenne la conversione da villa residenziale a fattoria agricola.
Ciò che rende la Villa dei Misteri uno degli edifici più celebri, affascinanti e visitati del Parco Archeologico di Pompei, è senza dubbio il ciclo di affreschi del triclinio, raffigurante riti misterici, da cui la struttura prende il nome. La pittura, in secondo stile pompeiano, ricopre le quattro pareti della sala. In origine, quest’ambiente, ornato da un pavimento in sectile a riquadri in bianco e nero, era un oecus, collegato alla doppia alcova nuziale, e solo più tardi assunse la destinazione di triclinio invernale. Realizzato da un artista anonimo nel I secolo a.C., il grande affresco raffigura ventinove personaggi di dimensioni quasi naturali che sembrano essere stati ritagliati, incollati e privati delle ombre (un genere pittorico definito “megalografia”), disposti a gruppi sopra un podio decorato a finto marmo (quindi dipinto in trompe-l’oeil), che corre lungo la parte inferiore delle pareti. La maggior parte degli studiosi ha riconosciuto nella scena la rappresentazione di un rito legato a Dioniso (il dio venerato dai romani col nome di Bacco), ispirata a un originale ellenistico datato fra il IV e il II secolo a.C.: probabilmente l’iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci.
La devozione a Bacco affonda radici profonde nel mondo italico e romano e si traduce nella diffusione dei “baccanali”, festività divenute poi veri e propri riti orgiastici durante i quali veniva invocato il dio. Nel 186 a.C. il Senato romano, nel tentativo di frenare la rapida diffusione di queste cerimonie misteriche, estranee alla religione ufficiale di Stato, emanò un’ordinanza che ne vietava lo svolgimento: il Senatus consultum de Bacchanalibus. Ma il culto continuò a diffondersi segretamente, in particolar modo in Campania. E una testimonianza della complessità di quei riti è rappresentata proprio dal grande affresco della Villa dei Misteri a Pompei.
Il grandioso fregio appare come una sequenza di fotogrammi che immortalano diversi momenti della cerimonia con le figure impegnate in azioni sacre. Nella prima scena da sinistra, accanto alla porta che collega la sala con il cubicolo nuziale a doppia alcova, il gruppo raffigurato è composto da due donne e un bambino nudo che legge un testo. Segue una donna che porta un’offerta (forse una focaccia, considerata di buon auspicio per gli sposi) e che si appresta a varcare la scena successiva. Alcuni studiosi hanno identificato il bambino con lo stesso Dioniso fanciullo intento nella lettura delle formule sacre sotto la guida della madre Semele e della zia Ino; secondo Maiuri, invece, si tratterebbe di un ministro ignaro del culto, puro in quanto ancora fanciullo, impegnato nella lettura del rituale. È plausibile, quindi, che questa sia la sequenza della catechesi, dove a sinistra è affrescata la sposa iniziata e al centro una sacerdotessa con accanto il fanciullo che legge i testi sacri. Quest’ultimi, poi, sono portati tra le mani dalla sposa raffigurata nuovamente a destra.
Nella scena seguente sono rappresentate donne impegnate nella preparazione di un bagno rituale che, secondo la tradizione, precedeva e seguiva il primo rapporto sessuale. La sacerdotessa siede al centro ed è di spalle, come per nascondere ciò che sta facendo allo sguardo dello spettatore. È assistita da due ancelle: una sostiene un cesto coperto da un drappo contenente forse gli oggetti simbolici e sacri del rito, l’altra versa dell’acqua su un ramo di mirto (pianta considerata simbolo di fecondità, sacra ad Afrodite ma legata anche a Dioniso in quanto, nell’antica Grecia, si raccontava che quando il dio era sceso nell’Ade per liberare la madre Semele aveva dovuto lasciare in cambio una pianta di mirto).
Nella scena successiva, si entra nel mondo mitico del corteo dionisiaco: un vecchio sileno musico e cantore, dalla figura possente, precede un satiro, o Pan suonatore di siringa, e una Panisca seduti su un masso roccioso. Due capretti stanno loro accanto e uno di essi sugge il latte dal seno della Panisca. Chiude la scena (e la parete) una figura femminile in posizione dinamica: sembra arretrare spaventata innanzi a ciò che vede sulla parete di fronte, ovvero la flagellazione di una neofita.
Nella scena sulla parete di fondo, un sileno, mentre volge lo sguardo accigliato alla donna terrorizzata della sequenza precedente, regge una coppa in cui si specchia il satiro che è alle sue spalle: probabilmente qui si allude alla catottromanzia, ossia la divinazione attraverso lo specchio. Un secondo satiro, invece, solleva beffardo una maschera teatrale (ricordiamo che il culto di Dioniso è strettamente legato alle origini del teatro). Il centro della sequenza è occupato da Dioniso che si abbandona languidamente tra le braccia di una figura femminile seduta in trono (che è purtroppo lacunosa, essendo questa la parte più rovinata della megalografia). La tesi maggiormente seguita, identifica questa figura femminile con Arianna, sposa di Dioniso. La coppia divina starebbe a simboleggiare la felicità ultraterrena che attende gli iniziati al culto. Secondo altri studi, invece, potrebbe trattarsi della dea Afrodite, in quanto la donna ha un ruolo rilevante nella scena e quindi sarebbe più plausibile identificarla con una divinità. Un’altra ipotesi avanzata, inoltre, identifica la figura con Semele, la madre del dio. A sostegno di quest’ultima tesi, il professore Gilles Sauron ha scritto un approfondito saggio dal titolo Il grande affresco della Villa dei Misteri a Pompei. Memorie di una devota di Dioniso (Jaca Book Editore), di cui consiglio la lettura.
Al di là della coppia divina, è raffigurata l’azione più significativa, il rito essenziale del culto dionisiaco: lo svelamento della cesta mistica, tradotto con l’immagine di una donna inginocchiata presso una cesta che nasconde, sotto un drappo di porpora, il fallo, ovvero il simbolo della fecondità. Di fronte vi è un essere femminile alato (forse Teleté, figlia di Dioniso e Nikaia, il cui nome significa “iniziazione”, “ultimo compimento”) che, munita di bastone, si appresta a colpire il dorso nudo della donna facente parte della sequenza successiva.
La cerimonia continua, infatti, con la flagellazione dell’iniziata, raffigurata in ginocchio e con la schiena nuda, china sulle gambe di una compagna dall’espressione pietosa. Il volto è seminascosto fra le pieghe delle vesti ed è solcato da occhiaie profonde, le ciocche dei capelli sono incollate alla fronte e alle tempie dal sudore: tutto suggerisce il dolore che sta provando. Secondo le antiche fonti, nei riti dionisiaci la fustigazione era intesa come mezzo catartico. Maiuri, invece, ipotizza che questa donna sia una giovane sposa infeconda che subisce la flagellazione per cacciare dal suo corpo la sterilità, assimilando quindi i Misteri ai Lupercalia, antichi rituali in cui le donne sterili venivano frustate per essere rese feconde. La cerimonia si chiude con una donna nuda, l’iniziata ormai divenuta baccante, invasa dall’ebrezza del dio, che danza orgiasticamente suonando i cembali. È accompagnata da una ministra del culto che regge il tirso, ovvero l’alto bastone sormontato da un viluppo d’edera in forma di pigna, il più famoso attributo di Dioniso. È una danza delirante, vorticosa, che trascina i sensi e lo spirito oltre il dolore e la gioia, conducendo all’estasi.
Sulle pareti ai lati dell’ingresso della sala sono raffigurate, ai margini del mistero, figure dal significato segnaletico: da una parte una bellissima e giovane sposa dai capelli biondi, assistita da un’ancella e da un amorino durante la toletta nuziale (come a sottolineare che il rito della sacra iniziazione è rivolto alle spose); dall’altra, una matrona, seduta ed elegantemente ammantata, intenta a osservare le fasi del rito. Forse è la facoltosa padrona della villa e, in quanto tale, committente del grande affresco dionisiaco. E chissà che quest’ultimo non sia proprio la rappresentazione simbolica delle sue nozze, della sua iniziazione al Mistero.
Sono venuto a conoscenza del blog tramite un amico.ho letto i vari articoli e questo in particolare mi ha colpito .Un articolo scritto in maniera perfetta e che oncede anche a chi non conosce il sito archeologico degli scavi Pompei,di poterli visitare non più in veste di turista,ma in veste di estimatore dell’antiche bellezze architettoniche che il luogo offre.
Grazie per questo tuo commento. Sono contenta che tu abbia letto e apprezzato i miei articoli. Continua a seguirmi 😉 Un saluto!